Luis Sepúlveda
STORIA DI UNA GABBIANELLA
E DEL GATTO CHE LE INSEGNÒ A VOLARE
Traduzione di Ilide Carmignani
Romanzo
SALANI EDITORE
Titolo dell'originale spagnolo
HISTORIA DE UNA GAVIOTA Y DEL GATO
QUE LE ENSENÓ A VOLAR
ISBN 88-7782-512-X
Prima edizione: agosto 1996
Copyright © Luis Sepúlveda,1996
by arrangement with Dr. Ray - Güde Mertin,
Literarische Agentur, Bad Homburg, Germany
Copyright © 1996 Adriano Salani Editore s.r.l.
Firenze, via del Giglio 15
Ai miei figli Sebastián, Max e León,
il miglior equipaggio dei miei sogni;
al porto di Amburgo
perché lì sono saliti a bordo;
e al gatto Zorba, naturalmente.
PARTE PRIMA
CAPITOLO PRIMO: Mare del Nord
<<Banco di aringhe a sinistra!>> annunciò il gabbiano di vedetta, e lo stormo del Faro della Sabbia Rossa accolse la notizia con strida di sollievo.
Da sei ore volavano senza interruzione, e anche se i gabbiani pilota li avevano guidati lungo correnti di aria calda che rendevano piacevole planare sopra l'oceano, sentivano il bisogno di rimettersi in forze, e cosa c'era di meglio per questo di una buona scorpacciata di aringhe?
Volavano sopra la foce del fiume Elba, nel mare del Nord. Dall'alto vedevano le navi in fila indiana, come pazienti e disciplinati animali acquatici, in attesa del loro turno per uscire in mare aperto e poi far rotta per tutti i porti della Terra.
A Kengah, una gabbiana dalle piume color argento, piaceva particolarmente osservare le bandiere delle navi, perché sapeva che ognuna rappresentava un modo di parlare, di chiamare le stesse cose con parole diverse.
<<Com'è difficile per gli umani. Noi gabbiani, invece, stridiamo nello stesso modo in tutto il mondo>> commentò una volta Kengah con un compagno di volo.
<<Proprio così. E la cosa più straordinaria è che ogni tanto riescono anche a capirsi>> stridette l'altro.
Al di là della linea costiera il paesaggio diventava di un verde intenso. Era un enorme prato nel quale spiccavano le greggi di pecore che pascolavano al riparo delle dighe, e i pigri bracci dei mulini a vento.
Seguendo le istruzioni dei gabbiani pilota, lo stormo del Faro della Sabbia Rossa imboccò una corrente d'aria fredda e si lanciò in picchiata sul banco di aringhe. Centoventi corpi bucarono l'acqua come frecce e, quando risalirono a galla, ogni gabbiano stringeva un pesce nel becco.
Aringhe saporite. Saporite e grasse. Proprio quello di cui avevano bisogno per recuperare energie prima di riprendere il volo fino a Den Helder, dove a loro si sarebbe unito lo stormo delle isole Frisoni.
La rotta prevedeva poi di proseguire fino al passo di Calais e al canale della Manica, dove sarebbero stati accolti dagli stormi della baia della Senna e di Saint-Malo, assieme ai quali avrebbero volato fino a raggiungere il cielo di Biscaglia.
A quel punto sarebbero stati un migliaio di gabbiani, simili a una veloce nuvola d'argento che si sarebbe pian piano ingrandita con l'arrivo degli stormi di Belle Ile e di Oléron, e dei capi Machichaco, Ajo e Penas. Quando tutti i gabbiani autorizzati dalla legge del mare e dei venti avessero sorvolato la Biscaglia, sarebbe potuto iniziare il grande convegno dei gabbiani del mar Baltico, del mare del Nord e dell'Atlantico.
Sarebbe stato un bell'incontro. A questo pensava Kengah mentre si pappava la sua terza aringa. Come tutti gli anni si sarebbero sentite storie interessanti, specialmente quelle narrate dai gabbiani di capo Penas, instancabili viaggiatori che a volte volavano fino alle isole Canarie o a quelle di Capo Verde.
Le femmine come lei si sarebbero date a grandi banchetti di sardine e di calamari, mentre i maschi avrebbero costruito i nidi sul bordo di una scogliera. Poi le femmine avrebbero deposto le uova, le avrebbero covate al sicuro da qualsiasi minaccia, e quando ai piccoli fossero spuntate le prime penne robuste sarebbe arrivata la parte più bella del viaggio: insegnare loro a volare nel cielo di Biscaglia.
Kengah infilò la testa sott'acqua per acchiappare la quarta aringa, e così non sentì il grido d'allarme che fece tremare l'aria:
<<Pericolo a dritta! Decollo d'emergenza!>>
Quando Kengah tirò di nuovo fuori la testa, si ritrovò sola nell'immensità dell'oceano.
CAPITOLO SECONDO : Un gatto nero, grande e grosso
<<Mi dispiace molto lasciarti solo>> disse il bambino accarezzando il dorso del gatto nero grande e grosso.
Poi continuò a preparare lo zaino. Prendeva una cassetta del gruppo Pur, uno dei suoi preferiti, la infilava dentro, esitava, la tirava fuori, e non sapeva se rimetterla nello zaino o se lasciarla sul comodino. Era difficile decidere cosa portarsi via per le vacanze e cosa lasciare a casa.
Il gatto nero grande e grosso lo guardava attentamente, seduto sul davanzale della finestra, il suo posto preferito.
<<Ho preso la maschera subacquea? Zorba hai visto la mia maschera subacquea? No. Non la conosci perché a te non piace l'acqua. Non sai cosa ti perdi. Nuotare è uno degli sport più divertenti. Un po' di croccantini?>> gli offrì il bambino prendendo la scatola.
Gliene servì una porzione più che generosa, e il gatto nero grande e grosso iniziò a masticare lentamente, per gustarli bene. Che biscottini deliziosi, croccanti, al sapore di pesce!
<<E un ragazzo fantastico>> pensò il gatto con la bocca piena.
<<Altro che fantastico. E il migliore!>> si corresse mentre ingoiava.
Zorba, il gatto nero grande e grosso, aveva degli ottimi motivi per pensarla così di quel bambino che spendeva i soldi della sua paghetta in quei deliziosi croccantini, che teneva sempre pulita la lettiera dove lui faceva i suoi bisogni, e che lo istruiva parlandogli di cose importanti.
Avevano l'abitudine di passare molte ore assieme sul balcone osservando l'incessante traffico del porto di Amburgo, e lì, per esempio, il bambino gli diceva:
<<Vedi quella nave, Zorba? Sai da dove viene? Be', viene dalla Liberia, che è un paese africano molto interessante perché è stato fondato da persone che una volta erano schiave. Quando sarò grande, diventerò il capitano di un grosso veliero e andrò in Liberia. E tu verrai con me, Zorba. Sarai un buon gatto di mare. Ne sono sicuro>>.
Come tutti i ragazzi di porto, anche quel bambino sognava viaggi in paesi lontani. Il gatto nero grande e grosso lo ascoltava facendo le fusa, e si vedeva anche lui a bordo di un veliero che solcava i mari.
Sì. Il gatto nero grande e grosso nutriva molto affetto per il bambino, e non aveva dimenticato che gli doveva la vita.
Zorba aveva contratto quel debito il giorno stesso in cui aveva abbandonato la cesta che faceva da casa a lui e ai suoi sette fratelli.
Il latte di sua madre era tiepido e dolce, ma Zorba voleva assaggiare una di quelle teste di pesce che la gente del mercato dava ai gatti adulti. Non che pensasse di mangiarla tutta lui, no, la sua idea era di trascinarla fino alla cesta e là miagolare ai fratelli:
<<Smettetela di succhiare la nostra povera mamma! Non vedete come è diventata magra? Mangiate il pesce, che è il cibo dei gatti del porto>>.
Pochi giorni prima che abbandonasse la cesta, sua madre gli aveva miagolato molto seriamente:
<<Sei agile e sveglio, e va benissimo, ma devi stare attento a come ti muovi e a non uscire dalla cesta. Domani o dopodomani verranno gli umani a decidere del tuo destino e di quello dei tuoi fratelli. Sicuramente vi daranno dei nomi simpatici e avrete il cibo assicurato. È una gran fortuna che siate nati in un porto, perché nei porti i gatti sono amati e protetti. L'unica cosa che gli umani si aspettano da noi è che teniamo lontani i topi. Sì, figliolo. Essere un gatto di porto è una gran fortuna, ma tu devi stare attento perché c'è qualcosa in te che
può renderti un disgraziato. Figliolo, se guardi i tuoi fratelli, vedrai che sono tutti grigi e che hanno la pelliccia a righe come le tigri. Tu, invece, sei nato completamente nero, a parte quella piccola macchia bianca che hai sulla gola. Certi umani credono che i gatti neri portino sfortuna perciò figliolo, non uscire dalla cesta>>.
Ma Zorba, che all'epoca sembrava una pallina di carbone, abbandonò la cesta. Voleva assaggiare una di quelle teste di pesce. E anche vedere un po' di mondo.
Non arrivò molto lontano. Trotterellando verso una bancarella di pesce con la coda ben alta e vibrante, passò davanti a un grosso uccello che dormicchiava con la testa piegata di lato. Era un uccello molto brutto e con un gozzo enorme sotto il becco. All'improvviso il piccolo gatto nero sentì che il suolo si allontanava da sotto le sue zampe, e senza capire cosa stava succedendo si ritrovò a far capriole in aria. Allora ricordò uno dei primi insegnamenti di sua madre e cercò un posto dove cadere in piedi, ma sotto lo aspettava l'uccello con il becco aperto. Piombò nel gozzo, che era molto buio e puzzava in modo orribile.
<<Fammi uscire! Fammi uscire!>> miagolò disperato.
<<Accidenti. Ma tu parli>> gracchiò l'uccello senza aprire il becco. <<Che razza di bestia sei?>>
<<Fammi uscire o ti graffio ! >> miagolò lui minaccioso.
<<Ho il sospetto che tu sia una rana. Sei una rana?>> domandò l'uccello sempre a becco chiuso.
<<Soffoco, stupido uccello!>> gridò il gattino.
<<Sì. Sei una rana. Una rana nera. Che strano>>.
<<Sono un gatto e anche furibondo! Fammi uscire o te ne pentirai!>> miagolò il piccolo
Zorba cercando un punto in quel gozzo buio in cui conficcare gli artigli.
<<Credi che non sappia distinguere un gatto da una rana? I gatti sono pelosi, veloci, e puzzano di pantofola. Tu sei una rana. Una volta ho mangiato diverse rane e non mi sono dispiaciute, ma erano verdi. Senti, non sarai mica una rana velenosa?>> gracchiò preoccupato l'uccello.
<<Sì! Sono una rana velenosa e per di più porto sfortuna!>>
<<Che dilemma! Una volta ho mandato giù un riccio velenoso e non mi è successo nulla. Che dilemma! Ti ingoio o ti sputo?>> meditò l'uccello, ma non gracchiò altro perché si agitò, sbatté le ali, e finalmente aprì il becco.
Il piccolo Zorba, completamente fradicio di bava, si affacciò e saltò a terra. Allora vide il bambino, che teneva l'uccello per il collo e lo scuoteva.
<<Devi essere cieco, scemo di un pellicano! Vieni, gattino. Per poco non finisci nella pancia di questo uccellaccio>> disse il bambino e lo prese in braccio.
Così era iniziata quell'amicizia che durava ormai da cinque anni.
Il bacio del bambino sulla testa lo allontanò dai ricordi. Vide che si metteva lo zaino, andava alla porta, e da là lo salutava ancora una volta.
<<Ci vediamo fra quattro settimane. Penserò a te tutti i giorni, Zorba. Te lo prometto>>.
<<Addio Zorba! Addio ciccione!>> lo salutarono i due fratelli minori del bambino.
Il gatto nero grande e grosso sentì chiudere la porta a doppia mandata e corse a una finestra che si affacciava sulla strada per vedere la sua famiglia adottiva prima che salisse in auto.
Il gatto nero grande e grosso sospirò compiaciuto. Per quattro settimane sarebbe stato signore e padrone dell'appartamento. Un amico di famiglia sarebbe venuto ogni giorno ad aprirgli un barattolo di cibo e a pulirgli la lettiera. Quattro settimane per oziare sulle poltrone e sui letti, o per uscire sul balcone, arrampicarsi sul tetto, saltare sui rami del vecchio ippocastano e scendere dal tronco nel cortile interno, dove aveva l'abitudine di ritrovarsi con gli altri gatti del quartiere. Non si sarebbe annoiato. Assolutamente.
Così pensava Zorba, il gatto nero grande e grosso, perché non sapeva cosa gli sarebbe caduto fra capo e collo nelle ore seguenti.
CAPITOLO TERZO: Amburgo in vista
Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l'onda densa fu più rapida e la sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era scomparsa, e dopo aver scosso il capo con energia capì che la maledizione
dei mari le stava oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana dalle piume d'argento, tuffò varie volte la testa sott'acqua, sinché qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo, così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente a nuoto dal centro dell'onda scura.
Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell'acqua pulita. Quando, a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l'immensità della volta celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano, molto lontano.
Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere, e nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni.
Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando fra le piume tappava loro tutti i pori.
Era questa la morte che la aspettava, e desiderò scomparire presto tra le fauci di un grosso pesce.
La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah maledisse gli umani.
<<Ma non tutti. Non devo essere ingiusta>> stridette debolmente.
Spesso, dall'alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne. Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne. Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori dell'arcobaleno non sempre arrivavano in tempo per impedire l'avvelenamento dei mari.
Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull'acqua, chiedendosi atterrita se per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce, peggio che patire l'angoscia dell'asfissia, era morire di fame.
Disperata all'idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio non le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma almeno poteva spiegarle.
<<Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui, e volando in alto, molto in alto, forse il sole scioglierà il petrolio>> stridette Kengah.
Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle isole Frisoni, che parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo, si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva incollato le piume ed era precipitato.
Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi, e ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott'acqua. Questa volta salì di un metro prima di cadere.
Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate, e finalmente vide la sua parte posteriore un po' meno lurida.
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo.
Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente.
Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa profilarsi appena come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come minuscoli oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di petrolio era troppo spessa.
Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando un posto per scendere, volò verso l'entroterra, seguendo la serpeggiante linea verde dell'Elba.
Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore. Adesso non volava più così in alto.
In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un'alta torre ornata da una banderuola d'oro.
<<San Michele!>> stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo.
Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.
CAPITOLO QUARTO: La fine di un volo
Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa.
Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone.
Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura e puzzolente.
Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.
<<Non è stato un atterraggio molto elegante>> miagolò.
<<Mi dispiace. Non ho potuto evitarlo>> ammise la gabbiana.
<<Senti, sembri ridotta malissimo. Cos'è quella roba che hai addosso? E come puzzi!>> miagolò Zorba.
<<Sono stata raggiunta da un'onda nera. Dalla peste nera. La maledizione dei mari. Morirò>> stridette accorata la gabbiana.
<<Morire? Non dire così. Sei solo stanca e sporca. Tutto qua. Perché non voli fino allo zoo? Non è lontano e là hanno veterinari che potranno aiutarti>> miagolò Zorba.
<<Non ce la faccio. Questo è stato il mio ultimo volo>> stridette la gabbiana con voce quasi impercettibile e chiuse gli occhi.
<<Non morire! Riposati un po' e vedrai che ti riprendi. Hai fame? Ti porterò un po' del mio cibo, ma non morire>> pregò Zorba avvicinandosi alla gabbiana esausta.
Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.
<<Senti, amica, io vogIio aiutarti, ma non so come. Cerca di riposare mentre vado a chiedere cosa si fa con un gabbiano ammalato>> miagolò Zorba prima di arrampicarsi sul tetto.
Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano quando sentì che la gabbiana lo chiamava.
<<Vuoi che ti lasci un po' del mio cibo?>> suggerì, leggermente sollevato.
<<Voglio deporre un uovo. Con le ultime forze che mi restano voglio deporre un uovo. Amico gatto, si vede che sei un animale buono e di nobili sentimenti. Per questo ti chiedo di farmi tre promesse. Mi accontenterai?>> stridette agitando goffamente le zampe nel vano tentativo di alzarsi in piedi.
Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi.
<<Ti prometto tutto quello che vuoi. Ma ora riposa>> miagolò impietosito.
<<Non ho tempo di riposare. Promettimi che non ti mangerai l'uovo>> stridette aprendo gli occhi.
<<Prometto che non mi mangerò l'uovo>> ripeté Zorba.
<<Promettimi che ne avrai cura finché non sarà nato il piccolo>> stridette sollevando il capo.
<<Prometto che avrò cura dell'uovo finché non sarà nato il piccolo>>.
<<E promettimi che gli insegnerai a volare>> stridette guardando fisso negli occhi il gatto.
Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.
<<Prometto che gli insegnerò a volare. E ora riposa, io vado in cerca di aiuto>> miagolò Zorba balzando direttamente sul tetto.
Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.
CAPITOLO QUINTO: In cerca di consiglio
Zorba scese rapidamente dal tronco dell'ippocastano, attraversò il cortile interno a tutta velocità evitando di essere visto da alcuni cani randagi, uscì in strada, si assicurò che non arrivassero auto, attraversò e corse in direzione del Cuneo, un ristorante italiano del porto.
Due gatti che frugavano in un bidone della spazzatura lo videro passare.
<<Accidenti, amico! Vedi anche tu quello che vedo io? Ma che bel ciccione>> miagolò uno di loro.
<<Sì, amico. E com'è nero. Più che una palla di grasso sembra una palla di catrame. Dove vai, palla di catrame?>> chiese l'altro.
Benché fosse molto preoccupato per la gabbiana, Zorba non era disposto a sopportare le provocazioni di quei due poco di buono. Per cui frenò, rizzò i peli sulla schiena e saltò sopra il bidone della spazzatura.
Lentamente tese una delle zampe davanti, tirò fuori un artiglio lungo come un cerino, e lo avvicinò al muso di uno dei provocatori.
<<Ti piace? Ne ho altri nove. Vuoi provarli sulla spina dorsale?>> miagolò con tutta calma.
Il gatto con l'artiglio davanti agli occhi ingoiò la saliva prima di rispondere.
<<No, capo. Ma che bella giornata! Non le pare?>> miagolò senza smettere di fissare l'artiglio.
<<E tu che dici?>> miagolò Zorba all'altro gatto.
<<Dico anch'io che è una bellissima giornata, ottima per passeggiare, anche se un po' fredda>>.
Sistemata la faccenda, Zorba riprese la sua strada fino ad arrivare davanti alla porta del ristorante. Dentro, i camerieri preparavano i tavoli per i clienti di mezzogiorno. Zorba miagolò tre volte e aspettò seduto sulla soglia. Dopo pochi minuti arrivò Segretario, un gatto romano molto magro e con solo due baffi, uno a destra e uno a sinistra del naso.
<<Ci dispiace molto, ma se non ha prenotato non potremo servirla. Siamo al completo>> miagolò come saluto. Stava per aggiungere qualcos'altro, ma Zorba lo interruppe.
<<Ho bisogno di miagolare con Colonnello. È urgente>>.
<<Urgente! Sempre con urgenze all'ultimo minuto! Vedrò cosa posso fare, ma solo perché si tratta di un'urgenza>> miagolò Segretario e rientrò nel ristorante.
Colonnello era un gatto dall'età indefinibile. Alcuni dicevano che aveva tanti anni quanti il ristorante che gli dava alloggio, mentre altri sostenevano che era ancora più vecchio.
Ma la sua età non importava, perché Colonnello possedeva uno strano talento per dar consigli a chi si trovava in difficoltà, e per quanto non risolvesse mai alcun problema, i suoi consigli per lo meno davano un po' di conforto. Grazie alla sua vecchiaia e alla sua grande dote, Colonnello era una vera autorità fra i gatti del porto.
Segretario tornò indietro di corsa.
<<Seguimi. Colonnello ti riceverà, ma in via del tutto eccezionale>> miagolò.
Zorba lo seguì. Passando sotto i tavoli e le sedie della sala da pranzo arrivarono alla porta della cantina. Scesero a balzi i gradini di una scala stretta, e di sotto trovarono Colonnello, con la coda ben ritta, che controllava i tappi di alcune bottiglie di champagne.
<<Mannaggia! I topi hanno rosicchiato i tappi del migliore champagne della casa. Zorba! Caro guaglione!>> lo salutò Colonnello, che aveva l'abitudine di miagolare parole in napoletano.
<<Scusa se ti disturbo nel bel mezzo del lavoro, ma ho un problema grave e mi occorre un consiglio>> miagolò Zorba.
<<Sono al tuo servizio, caro guaglione. Segretario! Servi al mio amico un poco di quegli spaghetti con la pummarola 'n coppa che ci hanno dato stamattina>> ordinò Colonnello.
<<Ma se li ha mangiati tutti lei! Non mi ha lasciato nemmeno sentire l'odore!>> si lamentò Segretario.
Zorba ringraziò spiegando che non aveva fame e riferì rapidamente il movimentato arrivo della gabbiana, le sue penose condizioni, e le promesse che si era visto costretto a farle. Il vecchio gatto ascoltò in silenzio, poi meditò
accarezzandosi i lunghi baffi, e alla fine miagolò risoluto: <<Mannaggia! Bisogna aiutare quella povera gabbiana a riprendere il volo>>.
<<Sì, ma come?>> miagolò Zorba.
<<La cosa migliore è consultare Diderot>> osservò Segretario.
<<E esattamente ciò che stavo per suggerire. Ma perché questo mi toglie i miagolii di bocca?>> reclamò Colonnello.
<<Sì. E una buona idea. Andrò da Diderot>> miagolò Zorba.
...
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