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STEPHENIE MEYER

STEPHENIE MEYER

TWILIGHT

(Twilight, 2005)

 

A mia sorella Emily,

senza il cui entusiasmo questa storia

sarebbe rimasta incompiuta.

 

Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangias­si, certamente moriresti.

GENESI 2,17

 

Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte, nono­stante nei mesi precedenti ne avessi avuta più di un'occasione, ma di sicuro non l'avrei immaginata così.

Con il fiato sospeso, fissavo gli occhi scuri del cacciatore, dall'altra parte della stanza stretta e lunga, e lui ricambiava con uno sguardo garbato.

Era senz'altro una bella maniera di morire, sacrificarmi per un'altra persona, qualcuno che amavo. Una maniera nobile, anche. Conterà pur qualcosa.

Sapevo che se non fossi mai andata a Forks non mi sarei tro­vata di fronte alla morte. Per quanto fossi terrorizzata, però, non riuscivo a pentirmi di quella scelta. Se la vita ti offre un so­gno che supera qualsiasi tua aspettativa, non è giusto lamentar­si perché alla fine si conclude.

Il cacciatore fece un sorriso amichevole e si avvicinò con passo lento e sfrontato, pronto a uccidermi.

 

1

A prima vista

 

Io e mia madre viaggiavamo verso l'aeroporto con i finestri­ni dell'auto abbassati. A Phoenix c'erano venticinque gradi, il cielo era blu, terso e perfetto. Indossavo la mia camicia preferi­ta, senza maniche, di sangallo bianco; la indossavo come un ge­sto d'addio. Il mio bagaglio a mano era una giacca a vento.

Nella penisola di Olympia, nel nordovest dello Stato di Wa­shington, nascosta da una perpetua coltre di nuvole, esiste la cittadina di Forks. Questo insignificante agglomerato urbano registra in un anno il più alto numero di giorni piovosi di tutti gli Stati Uniti. Fu da quella città e dalla sua ombra cupa e on­nipresente che mia madre fuggì, portandomi con sé quando avevo soltanto pochi mesi. Fu in quella città che mi obbligaro­no a passare un mese di vacanza, ogni estate, fino all'età di quattordici anni. A quel punto, riuscii finalmente a oppormi; nelle tre estati precedenti era stato mio padre, Charlie, a tra­scorrere con me due settimane in California.

E a Forks stavo andando in esilio, una decisione che avevo preso volontariamente e con grande disgusto. Detestavo Forks.

Amavo Phoenix. Amavo il sole e il caldo soffocante. Amavo quella città energica e caotica.

«Bella», mi ripeté mia madre un'ultima volta, forse la mille­sima, mentre salivo sull'aereo, «non sei obbligata».

Mia madre mi somiglia, a parte i capelli corti e le rughe. Mentre fissavo i suoi occhi grandi, da bambina, mi prese il pa­nico. Come potevo abbandonare mia madre, cosi tenera, sven­tata, imprevedibile, e costringerla ad arrangiarsi da sé? Certo, adesso c'era Phil, che significava bollette pagate, frigo pieno, benzina nel serbatoio, e qualcuno a cui chiedere aiuto se si fos­se persa. Eppure...

«Ci voglio andare», mentii. Non ero mai stata brava a dire bugie, ma avevo ripetuto quella frase talmente spesso che or­mai suonava quasi convincente.

«Salutami Charlie».

«Certo».

«Ci vediamo presto», insistette. «Puoi tornare quando vuoi. Se hai bisogno di me vengo a prenderti».

Ma capivo dal suo sguardo che dietro la promessa c'era il sacrificio.

«Non preoccuparti per me», tagliai corto. «Andrà benone. Ti voglio bene, mamma».

Mi abbracciò stretta per un minuto, poi salii sull'aereo, e lei non c'era più.

Per arrivare a Seattle da Phoenix ci vogliono quattro ore, più un'altra su un piccolo aereo per raggiungere Port Angeles; Forks è a un'ora di auto da . Non mi disturba volare; era il viaggio in auto con Charlie, invece, a preoccuparmi un po'.

Charlie si era comportato davvero bene dal primo all'ulti­mo istante in quella faccenda. Sembrava fargli sinceramente piacere che, per la prima volta, andassi a vivere da lui con l'in­tenzione di rimanerci per un po'. Mi aveva già iscritta a una scuola e mi avrebbe dato una mano a cercare un'auto tutta per me.

Ma ero sicura che tra di noi ci sarebbe stato dell'imbarazzo. Nessuno dei due era quel che si dice un tipo logorroico, e co­munque non riuscivo a immaginare di cosa avremmo potuto parlare. Sapevo che per lui la mia decisione era tutto tranne che comprensibile: come mia madre prima di me, non avevo mai nascosto che Forks mi ripugnava.

Quando atterrai a Port Angeles, pioveva. Non lo interpretai come un presagio: era inevitabile. Avevo già detto addio per sempre al sole.

Charlie mi aspettava sull'auto della polizia. Anche questo era inevitabile. Per la brava gente di Forks, Charlie è l'ispetto­re capo Swan.

Il motivo principale per cui desideravo una macchina tutta mia, malgrado i miei pochi risparmi, era che mi rifiutavo di far­mi accompagnare in giro per la città su un'auto con le luci ros­se e blu sopra il tetto. Niente rallenta il traffico come un poli­ziotto.

Charlie mi accolse stringendomi goffamente con un braccio, quando, inciampando, scesi dall'aereo.

«È un piacere rivederti, Bells», mi disse sorridendo, mentre mi afferrava automaticamente per non lasciarmi cadere. «Non sei cambiata molto. Renée come sta?».

«Mamma sta bene. È bello rivederti, papà». In sua presen­za, non avevo il permesso di chiamarlo Charlie.

Avevo poche valigie. La maggior parte dei vestiti che porta­vo in Arizona erano troppo permeabili per Washington. Io e la mamma avevamo unito le nostre risorse per arricchire il mio guardaroba invernale, senza riuscirci. Il baule dell'auto della polizia lo conteneva senza problemi.

«Ho trovato una buona macchina per te, un affarone», mi annunciò, una volta allacciate le cinture.

«Che genere di macchina?». Il modo in cui aveva detto buo­na macchina per te, anziché buona macchina e basta, mi aveva insospettito.

«Be', in realtà è un pick-up. Un Chevy».

«Dove l'hai trovato?».

«Ti ricordi Billy Black, quello che sta a La Push?». La Push è la microscopica riserva indiana sulla costa.

«No».

«Veniva con noi quando andavamo a pescare, d'estate», sug­gerì Charlie.

Ecco perché non lo ricordavo. Sono molto brava a rimuove­re dalla memoria tutte le esperienze dolorose e inutili.

«È finito sulla sedia a rotelle», continuò Charlie, in assenza di una mia risposta, «e non può più guidare, perciò mi ha of­ferto il pick-up a un prezzo davvero basso».

«Di che anno è?». Il repentino cambiamento d'espressione di Charlie mi diceva che questa era l'ultima domanda che spe­rava gli rivolgessi.

«Be', Billy ha sistemato il motore per bene... ha giusto qual­che annetto, ecco».

Speravo che non mi sottovalutasse tanto da credere di potermi zittire con una risposta del genere. «Quando l'ha comprato?».

«Nel 1984, penso».

«Nuovo?».

«Be', no. Penso che fosse nuovo nei primi anni Sessanta, o al massimo nei tardi Cinquanta», ammise, imbarazzato.

«Char... papà, io di auto non so niente. Se, si rompesse non saprei dove mettere le mani, e non potrei permettermi un mec­canico...».

«Sul serio, Bella, quell'aggeggio va alla grande. Mezzi così robusti non li fabbricano più».

L'aggeggio, pensai tra me e me... Se non altro come sopran­nome poteva andare.

«Per "prezzo basso" cosa intendi?». In fin dei conti, sui sol­di non potevo scendere a compromessi.

«Be', cara, più o meno te l'ho già comprato. Come regalo di benvenuto». Charlie mi guardò di sottecchi, con aria speranzosa.

Evviva. Gratis.

«Non ce n'era bisogno, papà. Mi sarei comprata una mac­china con i miei soldi».

«Non m'interessa. Voglio che qui tu sia felice». Quando pro­nunciò queste parole aveva gli occhi fissi sulla strada. Charlie non era mai a suo agio nell'esprimere i propri sentimenti ad alta voce. Quel tratto l'ho ereditato da lui. Perciò anch'io guardavo dritto di fronte a me, quando gli risposi.

«È un bellissimo pensiero, papà. Grazie. Mi fa davvero pia­cere». Inutile aggiungere che la possibilità di essere felice a Forks mi sembrava irrealizzabile. Non c'era bisogno che com­patisse le mie sofferenze. E io non avevo mai messo la testa nel­la bocca - o nel motore - di un pick-up.

«Be', perciò... benvenuta», farfugliò, confuso dai miei rin­graziamenti.

Scambiammo qualche veloce commento sul tempo e sulla pioggia, e la conversazione, più o meno, finì. Guardavamo in silenzio fuori dai finestrini.

Certo, il panorama era bellissimo, non potevo negarlo. Tut­to era verde: gli alberi, i tronchi coperti di muschio, che ne av­volgeva anche i rami come un baldacchino, la terra coperta di felci. Persino l'aria, filtrata dalle foglie, sembrava verdastra.

C'era troppo verde; era un pianeta alieno.

Alla fine giungemmo a casa di Charlie. Viveva ancora nel piccolo stabile con due stanze da letto che aveva comprato as­sieme a mia madre nei primi giorni di matrimonio. I primi e gli unici, peraltro. Lì, parcheggiato sul vialetto di fronte alla casa, rimasta sempre uguale nel tempo, c'era il mio nuovo - be', nuovo per me - pick-up. Era di un rosso scolorito, con i pa­raurti grossi e arrotondati e un abitacolo che sembrava un bul­bo. Con mia grandissima sorpresa, mi piacque. Non sapevo se si sarebbe mosso di lì, ma mi ci vedevo. In più, era uno di que­gli aggeggi di ferro resistenti che non si rompono mai, di quel­li che vedi sul luogo di un incidente senza il minimo graffio, in mezzo ai pezzi della macchina straniera che hanno appena di­strutto.

«Ehi, papà, è fantastico! Grazie!». L'orrendo domani che mi aspettava era già un po' meno spaventoso. Per andare a scuola non avrei dovuto scegliere tra camminare per tre chilo­metri sotto la pioggia o farmi dare un passaggio sull'auto del capo della polizia.

«Sono contento che ti piaccia», balbettò Charlie, di nuovo a disagio.

Con un solo viaggio riuscimmo a portare tutte le mie cose al piano di sopra. La mia stanza era quella a ovest, e dava sul pra­to di fronte a casa. La camera mi era familiare; appena nata mi avevano messa qui. Il pavimento di legno, le pareti azzurre, il soffitto a punta, le tendine di pizzo ingiallite alla finestra: tutto questo era parte della mia infanzia. Negli anni Charlie aveva provveduto soltanto a sostituire il lettino con un letto vero e ad aggiungere una scrivania. Sulla scrivania ora c'era un computer di seconda mano, e sul pavimento strisciava il cavetto per il collegamento al modem, connesso alla presa del telefono più vicina. Questo faceva parte delle condizioni poste da mia ma­dre, perché potessimo restare in contatto più facilmente. Nel­l'angolo ritrovai la sedia a dondolo di quand'ero bambina.

C'era solo un piccolo bagno in cima alle scale, che avrei do­vuto dividere con Charlie. Cercavo di non farci troppo caso.

Una delle qualità migliori di Charlie è che si fa gli affari suoi. Lasciò che disfacessi le valigie e mi sistemassi da sola, im­presa che per mia madre sarebbe stata impossibile. Era bello stare per conto mio, senza essere obbligata a sorridere e mo­strarmi contenta; un sollievo, starmene a guardare avvilita la pioggia fitta fuori dalla finestra e lasciare cadere soltanto poche lacrime. Non ero dell'umore giusto per una vera crisi di pianto. Quella me la sarei conservata per l'ora di andare a dormire, al pensiero di ciò che mi attendeva il mattino dopo.

La scuola superiore di Forks vantava la spaventosa quota di trecentocinquantasette iscritti più uno, dopo il mio arrivo; a Phoenix, la prima classe da sola ne aveva più di settecento. Tutti i ragazzi erano cresciuti assieme, anche i loro nonni si co­noscevano fin da bambini. Io sarei stata la ragazza nuova che viene dalla grande città, una curiosità, un mostro.

Ciò sarebbe stato un vantaggio, se solo avessi avuto davvero l'aria di una ragazza di Phoenix. Purtroppo, fisicamente non rientro in nessuna categoria. Dovrei essere abbronzata, bionda, sportiva - una giocatrice di pallavolo o una cheerleader, per esempio -, tutte cose automatiche per una che vive nella "valle del sole".

Invece, malgrado le eterne giornate di sole, la mia pelle era color avorio, senza nemmeno un paio di occhi blu o una chio­ma di capelli rossi a giustificarmi. Sono sempre stata smilza, ma anche un po' fiacca, e di certo non atletica; non ho mai avuto la coordinazione occhio-mano necessaria a praticare uno sport senza umiliarmi o fare del male a me e ai miei compagni di gioco.

Biposti i vestiti nella vecchia cassettiera di abete, entrai nel bagno comune armata di beauty case, per darmi una ripulita dopo la giornata di viaggio. Mi guardai allo specchio, mentre pettina­vo i miei capelli annodati e umidi. Forse era la luce, ma già mi sembrava di essere più giallastra, malaticcia. La mia pelle poteva anche essere bella - molto chiara, sembrava quasi trasparente - ma tutto dipendeva dal colore. Qui non avevo colori. Osservando il mio pallido riflesso nello specchio, fui co­stretta ad ammettere che mi stavo prendendo in giro da sola. Non sarei mai stata capace di inserirmi e non era colpa del mio aspetto. Non ero riuscita a ritagliarmi un posto in una scuola con tremila studenti, quante possibilità potevo mai avere, qui? Non ero capace di entrare in sintonia con le persone della mia età. Forse dovrei dire che non sapevo entrare in sintonia con le persone, punto. Non riuscivo a vivere in armonia nem­meno con mia madre, la donna che in assoluto sentivo più vici­na, quasi non parlassimo mai davvero la stessa lingua. Ogni tanto mi chiedevo se i miei occhi e quelli del resto del mondo vedessero le stesse cose. Forse il mio cervello era difettoso.

Ma la causa non importava, l'effetto sì. E il giorno dopo sa­rebbe stato soltanto l'inizio.

 

Quella notte non riuscii a dormire bene, neanche dopo aver pianto a dirotto. Lo sbuffo continuo del vento e della pioggia sul tetto non tacque nemmeno per un istante. Mi coprii la testa con il vecchio plaid scolorito, poi aggiunsi anche un cuscino. Ma presi sonno soltanto dopo mezzanotte, quando finalmente l'acquazzone si trasformò in una pioggerella silenziosa.

Il mattino dopo, dalla mia finestra non vedevo altro che nebbia densa, e mi sentii assalire dalla claustrofobia. Qui il cie­lo era perennemente invisibile: una specie di gabbia.

La colazione con Charlie fu tranquilla. Lui mi augurò buona fortuna per il mio primo giorno di scuola. Io lo ringraziai, ma sapevo già di non avere speranze. La fortuna, di solito, mi sta­va alla larga. Charlie uscì per primo per andare alla centrale di polizia che per lui era una moglie e una famiglia. Rimasta sola, mi sedetti al vecchio tavolo quadrato di quercia, su una delle tre sedie spaiate, ed esaminai la piccola cucina, con le pareti r...

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